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Massimo Pulini
ROVINE DINAMICHE
Le colonne spezzate, i capitelli divelti e le statue in frantumi di quel che era un colossale tempio, sorto sulle sponde dell’Egeo, possono fornire metafora alla memoria del mondo, ma anche alla stessa nostra capacità di ricordare, di trattenere dentro a noi le tracce di quel che abbiamo vissuto.
Del grande splendore di un tempo le finte colonne e la scalinata moderna ci restituiscono i volumi del grande tempio, ma di originale ci restano in mano frammenti scheggiati del lungo fregio che solo da lati ridotti della pietra conservano la forma scolpita dei volti e dei corpi. La maggior parte del marmo ha la forma di un rude sasso con creste frastagliate, tra pareti ondulate dallo spacco e corrose dal tempo. Qua e là rimane la sporgenza levigata di quel che era un naso, unita a un accenno di zigomo, ma l’occhio ha la palpebra frantumata e vuota. Altrove, tronchi di busti, braccia staccate che restano sospese in aria e cosce dall’energia contratta, a ricordo dell’impeto di una lotta convulsa, impietosa.
La Storia ha disperso i propri frammenti in ogni dove, quasi fosse stata investita da una esplosione, neppure il più paziente e accorto lavoro di restauro la riuscirà a ricomporre interamente. Sparsi a terra in secoli di abbandono, preda di tutti gli eventi, dei furti e degli scempi, quelle pietre memori vennero ritrovate da archeologi tedeschi e sul finire dell’Ottocento trasportate a Berlino, in una colossale operazione di trafugamento, avvenuta col consenso del sultano Abdul Hamid II. Ma il peregrinare del gigantesco altare di Pergamo, non era cessato e finita la seconda Guerra Mondiale venne portato e Leningrado per dieci anni, fino a che l’Unione Sovietica non lo donò nuovamente a Berlino Est.
Quel fregio è un inno alla frammentazione, alla meraviglia della mancanza, che di una narrazione compatta e possente, quale era lo scontro coi Titani, mostra, a noi che lo vediamo ora, una frantumaglia macellata, quasi che il tempo sia sceso nel campo di battaglia come terzo esercito e abbia inferto ferite ai giganti e agli stessi dei.
Salvatore Amelio ha scelto di occuparsi, da vari decenni, di questa metaforica diaspora della memoria. Le opere che realizza sembrano ritrarre e spesso anticipare quello smembramento della forma che non ha riguardato solo l’Altare di Pergamo. Riconosciamo talvolta il gesto di una figura, la torsione di un corpo noto, che viene dal repertorio della pittura antica, sospeso un attimo prima del suo distacco dalle altre parti. Così anche i disegni e i dipinti ci appaiono come progetti per un pensiero scultoreo che indaga quella lacerazione dell’Arte, privilegiando morfologie vorticose e spiraliche che hanno l’aspetto di frammenti ricostruiti.
Stagliati contro un cielo nuvoloso quegli elementi plastici, per quanto lacunosi, conservano un’energia dinamica, anzi è forse proprio la condizione di parti esplose che dà loro uno sviluppo cinetico.
A pensarci bene anche la Nike di Samotracia ha acquisito un dinamismo maggiore da quel colpo misterioso e segreto che l’ha resa acefala, privandola di certo di un volto che doveva essere bellissimo, ma proiettandola verso il vento.
Chi per primo, in epoca moderna, tentò di scomporre la purezza di quel moto incarnato nell’arte ellenistica fu Umberto Boccioni con la sua scultura Forme uniche della continuità nello spazio. Nello stesso programmatico titolo è sintetizzato il concetto di un’ideale unità, una continuità raggiunta malgrado la decostruzione delle parti.
Credo vada letta sulla traccia di questo precedente di primo Novecento anche la ricerca di Amelio, vorticosa e disgregata, insieme memore e astratta.
Ogni omaggio a forme storiche trova lo spazio aperto di un cielo, che sia rivolto a un solare Apollo e Dafne o al notturno Martirio di San Pietro, a una ieratica Crocefissione o all’elevarsi di un’Assunta, tutto si svolge sospeso in aria, entro una luce concreta e lontana, che fa da schermo alle volute acrobatiche delle figure, quasi fossero icone distribuite in un desktop pittorico.
Che l’indagine di Salvatore Amelio trovi fondamento e passione nella storia è dimostrato anche dall’impegno, serio e attento, che pone nel ruolo di presidente del Centro Studi che la città di Cento ha dedicato al suo più illustre artista: Giovanni Francesco Barbieri detto Guercino.
Rimini stessa è una città guercinesca, non solo in virtù di varie opere commissionate direttamente all’artista da importanti notabili, ma anche ad alcuni allievi e seguaci romagnoli che ne diffusero e ne radicarono il verbo in tutto il territorio.
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