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Katharina Koch
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Gigantomachie
L'altare di Zeus, dedicato alla vittoria dei Pergameni sui Galati, era stato pensato come un monumento per sempre, legato strettamente alla storia e ai luoghi. Difficile immaginare una sua rimozione, più facile, seppure con sconcerto, pensare alla sua distruzione, nella battaglia più difficile, quella contro il tempo.
Guardando oggi i frammenti dei fregi, i rilievi, le colonne e ricordandosi che ci si trova a Berlino, ci si rende conto, quasi come in sogno, che la distruzione parziale di quel monumento è stata storicamente la condizione che ne ha permesso il trasporto e la rinascita, sotto altri cieli.
Il mito e la politica, una coppia fatale che si incontra su questo fregio in molti modi: la storia politica cerca legittimità a Pergamo trasfigurando la vittoria militare in un evento intemporale: la gigantomachia. Altri miti, tuttavia, sono stati decisivi per questo monumento ritrovato: tra gli altri il mito della Grecia, così potente in Germania dall’epoca umanistica in avanti, ma soprattutto a partire dall’Ottocento. Il Sultano non vedeva altro che vecchi sassi, un crollo, la rovina, esattamente quello che la sua prospettiva religiosa lo confortava a vedere, pietre spezzate di favole antiche o, peggio, rovine e calcinacci di un culto idolatra. Questo tedesco se le vuole portare a casa? È pronto ad accollarsi le spese per caricare i frammenti di marmo su un piroscafo e a fargli attraversare tutto il mediterraneo e poi la Manica fino ad Amburgo, per proseguire poi per via fluviale fino a Berlino? Che si accomodi, ci avrà fatto un piacere, deve aver pensato, il Sultano Abdul Hamid II. Del tutto invisibile sembra che fosse, per lui, la molla che spinse l’ingegnere Carl Humann a scavare prima e a trasportare i frammenti fino a Berlino poi, a farli ricostruire ed esibire in quella che è l’Isola dei Musei, un pezzo di Mediterraneo antico in mezzo alle sabbie prussiane, un’antica battaglia per un regno bellicoso che aveva finito per identificarsi con l’antico impero tedesco e a ricostruirlo dopo la parentesi napoleonica e una restaurazione provinciale.
Che cosa ha attirato verso questo oggetto così famoso da essere quasi invisibile uno scultore come Salvatore Amelio? Che cosa ha intravisto un italiano in un monumento ellenistico trapiantato nella nebbia prussiana? Vi ha visto il simile o il diverso? L’occhio e la mano dello scultore vedono e arrivano dove il filosofo o il politico non sanno: la pazienza certosina di Amelio, con i suoi innumerevoli bozzetti, disegni preparatori, tavole e prove, ci mostra un altro lato di quest’opera ricchissima: egli estrae dalla complessità storica e artistica dell’altare e del suo fregio principale, l’essenza, che è fatta di movimento. La scelta di trasformare, secondo una grammatica figurativa libera e rigorosa ad un tempo, gli originali marmorei in fusioni di bronzo restituisce il carattere fluido della narrazione pietrificata e permette di cogliere la vitalità di quelle figure. Quelli di Amelio, più che omaggi, sono studi, Momentaufnahmen (istantanee), che, come si sa, sono concesse solo all’osservatore paziente. Un lungo studio, un grande amore, una passione attiva, se si può dir così, che va ben al di là di una semplice osservazione ammirata, quel che accade al turista, non importa se attento o distratto, ed esige di ricostruire (ancora una volta il restauro infinito dell’ara di Pergamo) per sé e per gli altri, con le proprie mani, con il proprio lavoro, ciò che ci ha parlato. In fondo Amelio e Humann non sono poi così diversi: intravvedere un senso nel cumulo di materiali, e volerlo riportare in vita, l’uno secondo un metodo filologico, l’altro secondo un’appropriazione libera che pensa e agisce nel mondo di oggi. Per uomini di questa fatta non si può ammirare un oggetto senza farlo proprio, senza vederlo prima che sia emerso dal caos.
Che cosa rappresenta l’ara di Pergamo esattamente? Molte sono le teorie, e gli studiosi non sono d’accordo: secondo alcuni la lotta della dinastia di Pergamo contro i romani, la battaglia contro i Galati, o anche il trionfo dell’uomo sulla natura. Certamente il signficato di questo splendido manufatto, sotto un altro cielo, nella luce grigia del Brandeburgo, il suo biancore abbagliante, specie se confrontato con il bruno scuro della colonna della vittoria e l’oro dell’angelo che la sovrasta, sono divenuti a loro volta un mito moderno. Non per caso l’Armata rossa è stata incaricata dai dirigenti sovietici di trasportare l’altare di Pergamo in Russia, a sfregio della potenza, della superbia, dell’aggressione dei tedeschi contro la Russia Sovietica. E, benché la Repubblica Democratica Tedesca fosse entrata sotto l’egida (ecco un altro mito addormentato pronto a risvegliarsi) dell’Unione Sovietica, fu trasportato come tante fabbriche tedesche, pezzo a pezzo da una Berlino in macerie. Ancora una volta la distruzione permetteva all’altare di Pergamo un viaggio lontano. Singolare trofeo questo fregio che assomiglia a un puzzle.
Si direbbe che le forze della disgregazione abbiano sempre accompagnato la storia di questo manufatto, non meno di quelle che hanno sempre ripreso il discorso per riportare alla luce la sua bellezza, la sua armonia, la sua narrazione grandiosa. Una forza centrifuga attraversa questo fregio e lo anima ma, allo stesso tempo, lo minaccia, bilanciata soltanto, come nella tensione muscolare delle tante figure che si abbracciano nell’atto di uccidersi, dalla forza centripeta che sempre ricominica a costruire legami e a rabberciare frammenti. È difficile, per un tedesco, non vedere qui un compendio lunare della storia della Germania dell’ultimo secolo e mezzo, non solo perché il manufatto la ha fisicamente accompagnata, nei trionfi e nelle sconfitte, nell’espansione e nell’esilio, ma perché l’identità tedesca, con la sua complessità, con le spinte centrifughe rispetto all’Europa, ma anche rispetto alla Germania stessa in infiniti regionalismi e localismi, ma allo stesso tempo con la grande idea unitaria, con l’ideale di unire nell’Europa (un altro mito, non per niente) una forza che resiste al caos e lo guarda negli occhi senza paura. L’ara di Pergamo, nel bene e nel male, ha un futuro.
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