| Walter Guadagnini - Dialogo tra differenti mondi La capacità del guerriero di farsi altre figure, per via di scomposizione e di combinazione, fino a quella di farsi astrazione totale, relazioni pure, ebbene questa è una dote essenzialmente metafisica, un potere mentale e del sogno”: queste parole di Omar Calabrese del 1990 rimangono ancora oggi valide, a quasi un ventennio di distanza, a introdurre l’opera di Salvatore Amelio, in particolare quella scultorea ampiamente documentata in questo volume. Amelio è scultore e pittore che si inserisce senza remore all’interno della tradizione moderna avviatasi in Italia agli inizi del XX secolo, e che ne dà un’interpretazione personale, in grado di combinare suggestioni diverse in un’unica lingua, quella dell’evocazione del reale per via di figure metamorfiche, in costante modificazione. È sufficiente vedere il pannello scultoreo del “Lavoro umano” del 1981 e la grande “Evoluzione” del 1989, per intendere quali siano le linee operative che guidano l’artista sin dagli esordi: anzitutto la predilezione per la figura umana, per un soggetto ricco di storia e al tempo stesso eternamente attuale; la facilità nell’affrontare le problematiche formali e compositive relative ai diversi modi di inveramento della scultura, sia nella sua forma più esplicitamente tridimensionale sia in quella del bassorilievo; la volontà di operare anzitutto sulla spazialità, sui rapporti interni dell’opera, senza rinunciare alla dimensione narrativa della scultura. La figura umana è, dunque, il motore primo dell’ispirazione di Amelio, l’autentico nucleo sul quale si fonda la sua poetica; una figura che può assumere gradi di realismo anche estremo (basti pensare alla scultura dedicata a Padre Pio a Cento, dove l’artista sembra guardare persino a certa plastica di matrice verista ottocentesca, non fosse per l’abbigliamento del ragazzo, che riporta l’intera scena dentro la più flagrante contemporaneità), ma che nella maggior parte dei casi si fonda su un principio di riduzione dell’anatomia a un puro susseguirsi di linee-forza e di pesi che valgono come indicatori di un’azione che è insieme quella del soggetto e quella dello scultore che gli dà vita. E se è innegabile il riferimento storico alla metafisica che già da più parti è stato evidenziato a proposito dell’opera di Amelio – un riferimento che investe tanto la scelta iconografica di concentrare nella figura retorica del guerriero ogni personaggio, evitando volutamente qualsiasi interpretazione psicologica individuale, quanto la scelta di portare queste figure in una dimensione atemporale – non di meno appare altrettanto chiara una discendenza dall’ambito futurista e da quello di una particolare astrazione di inizi secolo, a testimonianza di una varietà di ispirazione e di interessi che caratterizza in profondità questa ricerca. Futurismo, dunque, e più precisamente il Boccioni di “Forme uniche di continuità nello spazio”, un testo canonico della scultura novecentesca, che Amelio sembra prendere come punto di partenza per il suo lavoro di elaborazione della forma nello spazio, senza mai citare esplicitamente il grande maestro degli “Stati d’animo”, ma al tempo stesso suggerendo in più di un particolare l’autentica origine di determinate sue scelte plastiche e costruttive. Tale ascendenza rivela anche uno dei nuclei ulteriori dell’ispirazione di Amelio, poiché in Boccioni ancora viva era la coscienza della scultura classica, di un susseguirsi di tramandi che, almeno a partire da Antelami e Wiligelmo (per non dire della statuaria classica), hanno nutrito la storia dell’agire nella materia e nello spazio da parte della cultura occidentale, almeno fino a Rodin. È in questa linea che Amelio si vuole inserire, una linea che concepisce il rinnovamento come prosecuzione di una vicenda, e non come cesura, una linea che fa della memoria un luogo privilegiato non solo di pensiero ma anche di azione, come se fosse impossibile anche solo immaginare una scultura che non guardi idealmente a quei modelli, lontani nel tempo eppure così vicini nell’immaginario e nella pratica. Allo stesso modo va letto il riferimento possibile ai maestri dell’astrazione scultorea come Arp, Gabo, per giungere alla figura di Alberto Viani, un’astrazione che non nasce dalla pura speculazione intellettuale, ma dalla trasformazione dell’evidenza retinica in elaborazione formale, in un processo che davvero concepisce il termine stesso di astrazione nella sua valenza etimologica, quell’estrarre da qualcosa, che significa poi, nella concretezza dell’opera, agire per via di sintesi e non di analisi. Là dove l’evidenza delle forme e la loro riconoscibilità transitano per una metamorfosi organica del segno, per un continuo sviluppo sul tema della curva, in netto contrasto con la predilezione per le linee rette di un altro versante, non meno importante ma evidentemente poco amato dallo scultore centese, dell’evoluzione di quello stesso originario linguaggio astratto. In tale logica progressione anche storica, dunque, si inserisce Amelio, con la precisa coscienza di una continuità che non si spezza mai e che diviene persino autentica figura retorica della sua azione scultorea: si guardino tutte le opere realizzate nel corso ormai di un trentennio, e si vedrà come l’elemento formale maggiormente ricorrente, a prescindere da quelli che sono i soggetti e i diversi momenti della ricerca, sia quello del legame esistente tra le varie forme che compongono l’intero, quello della continuità, per l’appunto, della materia. Una continuità che permette sempre di leggere queste sculture come un tutt’uno, una sorta di progressione dall’alto in basso e viceversa che non ha mai fine, che potrebbe, potenzialmente, continuare all’infinito senza che la mano – e l’occhio – mai trovino il punto di stacco, il momento di frattura. Rimanendo ancora ad “Evoluzione”, che pare rappresentare una sorta di summa del pensiero di Amelio, la prima compiuta elaborazione di ciò che nelle sculture precedenti si andava esplorando, questo elemento di continuità emerge con forza nel passaggio dalla figura, dalla sua concretezza, ai segni nello spazio che rappresentano l’idea del volo, secondo quel modo di procedere che caratterizza ancora oggi l’opera dell’artista. I segni partono in realtà dalla base, si dipartono già dalle gambe piegate a toccare terra per risalire attraverso il corpo e librarsi infine nel vuoto sopra le teste dei guerrieri, ali o lune che siano, poco importa, ciò che importa è la relazione che si è instaurata tra gli elementi, tra gli spazi che li compongono e tra quelli che essi creano. Dove non si può nemmeno escludere una volontà di trasfigurare la figura in chiave simbolica, come avviene in modo ancora più evidente in opere come “Guercino ’91” o nel pannello “Il Lavoro” di due anni successivo, che rappresentano i momenti di maggiore concentrazione sul tema del bassorilievo da parte dello scultore. Un bassorilievo che, naturalmente, concede anche ad Amelio di rafforzare quel rapporto con il disegno e con la pittura che è ulteriore tratto caratteristico della sua poetica. E se in questo transito tra le due e le tre dimensioni si misura la capacità dell’artista di affrontare lo specifico di ogni linguaggio senza rinunciare alla possibilità del loro dialogo, allo stesso tempo si evidenzia quel carattere di partecipazione alla vita stessa delle proprie figure che rappresenta un ulteriore luogo poetico di assoluto rilievo, per taluni aspetti anche sorprendente rispetto a quell’impostazione metafisica ricordata in avvio del testo. Infatti, l’artista non sembra mai rinunciare del tutto a partecipare emotivamente alla vita dei suoi personaggi, per quanto essi non siano caratterizzati individualmente: i suoi guerrieri-lavoratori non sono mai pure forme, né puri simboli, sono forme e simboli che si incarnano in figura umana, e della figura mantengono l’essenza della fatica, dello sforzo, della volontà di superamento del limite terreno, della volontà di trascendenza che sono, insieme, dell’uomo e dell’artista. Amelio si identifica nei suoi personaggi a tal punto, verrebbe da dire, da potersi permettere di non ritrarli, poiché in fondo ognuna di queste figure potrebbe, paradossalmente, essere un autoritratto, il prender corpo delle idee, dei desideri e delle azioni dello scultore stesso. Artefice, dunque, e narratore, e infine testimone: così si presenta Amelio al suo pubblico, rivelando anche la sua assoluta naturalezza a confrontarsi con lo spazio pubblico, con un’idea di scultura che va al di là della fruizione privata per giungere alla piazza, al luogo condiviso di una comunità, senza alcun timore, e anzi rivendicando questa possibilità come autentica natura del proprio fare. Ecco perché, allora, i suoi personaggi appartengono a mondi differenti – quello del lavoro in primis – ma anche possono rappresentare le versioni, odierne e personali, di miti antichi come quello di Galata o quello di Enea e Anchise: da un lato, ci si trova dinnanzi alla rielaborazione dei topoi della scultura occidentale, in linea con quanto si affermava più sopra a proposito della moderna classicità di Amelio; dall’altro, però, l’artista sembra cercare in questi miti e in queste figure il luogo di condivisione del proprio immaginario con quello del potenziale pubblico, il luogo in cui l’autore trova il punto di incontro con lo spettatore. Ha scritto bene Vittoria Coen alcuni anni orsono, quando ha parlato dell’atteggiamento nobile dell’artista: “nobile quasi sempre il materiale, e l’uso che ne viene fatto, nobile ancora il riferimento, con una costante compostezza di forme e di linee che non viene abbandonata nemmeno quando, nelle opere pittoriche, la scomposizione giustificherebbe qualche voluta durezza e qualche angolosità”. Una nobiltà che risponde alle attese di un fruitore disposto a farsi irretire dalla forma scultorea nel momento in cui essa diviene lingua comune, cui l’artista dà voce secondo una perizia, una abilità, che gli garantisce il ruolo privilegiato che per anni ha mantenuto all’interno della società. Oggi, certo, la situazione è profondamente mutata, ma Amelio sembra non voler rinunciare a questo dialogo con gli abitanti, e non solo con i collezionisti, allo stesso modo in cui non rinuncia al dialogo con i classici – o forse sarebbe meglio dire che la rinuncia a uno dei due termini implicherebbe per Amelio il fatale abbandono anche dell’altro. Ecco allora che quell’impianto ideale di metafisica idealità è andato nel corso degli anni a innestarsi su un più articolato progetto espressivo, che giunge oggi alla sua più complessa e ambiziosa prova, il confronto con il grande spazio della rinnovata piazza principale di Sant’Agostino, il luogo ideale per lasciare che guerrieri e lavoratori, ali e lune, materie e segni incontrino gli occhi di un pubblico per sua natura indistinto, quel pubblico che in vari modi si potrà riconoscere in quelle forme, in quei gesti, così come Amelio li ha visti, immaginati e reinventati. Non a caso l’artista ha riflettuto, prima ancora che sull’oggetto scultoreo, sulla natura della piazza, intuendo come fosse primaria la necessità di un dialogo con lo spazio urbano, con un luogo che anche idealmente si trova ad essere simbolico, chiuso com’è da un lato dal Municipio e dall’altro dalla Chiesa di Sant’Agostino, secondo un modello storicamente ben definito della cultura urbana e sociale in senso lato italiana. Tra questi due estremi, la grande piazza si configura come un campo aperto, come uno spazio vitale che, per ragioni storiche, non è però mai stato luogo d’incontro: il primo scopo che Amelio si è posto con il suo complesso scultoreo è stato dunque di fornire a questo luogo un’identità nuova, di trasformarlo da luogo di passaggio anonimo a ben identificato punto di incontro. Per questo, la scultura doveva assumere una forte presenza fisica ma, al contempo, non doveva divenire un oggetto preponderante rispetto alle proporzioni della piazza: un equilibrio dimensionale che Amelio ha trovato costruendo una sorta di scenario, attraverso una struttura in cemento sulla quale, come si trattasse di uno schermo, si dipana il bassorilievo, ricco di riferimenti tanto alla poetica dell’artista quanto alla natura stessa del luogo dove esso si trova a vivere. Il linguaggio scultoreo è, infatti, pienamente aderente a quanto realizzato dallo scultore sino ad ora, l’impegno di una committenza pubblica di tale rilievo non ha indotto Amelio a modificare le ragioni profonde del suo operare, sia dal punto di vista stilistico che da quello della scelta dei materiali. Allo stesso modo, i riferimenti alla storia e alla natura del luogo vengono tradotti con eguale coerenza e rigore, come dimostrano le citazioni fluviali riconoscibili nella parte destra della composizione. Citazioni che, come i personaggi di destra, vengono però date per via di sintesi, secondo quello che è il modo caratteristico di questa poetica; solo la resa del corso d’acqua lascia intendere una disponibilità ad un approccio più marcatamente figurativo, forse anche perché questo elemento viene in realtà a sostituire la piccola cascata d’acqua che faceva parte del progetto originario, alla quale si è rinunciato. Si tratta, allora, davvero di una summa del percorso di Amelio, del momento in cui quanto realizzato negli anni sia nell’ambito scultoreo che in quello pittorico giunge a una condensazione espressiva compiuta, secondo una logica evolutiva che ricorda proprio quella dei suoi personaggi, legati alla terra ma destinati a trasfigurarsi in simboliche figure alate: è quell’andamento ascensionale che caratterizza tutta l’opera dell’artista, e che in questa occasione raggiunge, certo non casualmente, il suo momento di maggiore intensità espressiva.
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