| Angelo Andreotti - Istituto di Cultura "Casa G.Gini"Ferrara 1987 Credo sia immediatamente evidente la matrice Metafisica che pervade la pittura di Salvatore Amelio, soprattutto se si guarda globalmente il processo della sua lenta ma costante evoluzione che lo ha portato, da soluzioni dichiaratamente metafisiche indubbiamente raggiunte attraverso le lezioni del surrealismo di Tanguy, all'odierna trasformazione dove quella matrice appena accennata appare formale più che contenutistica, così palesandosi come ascendente direi quasi accademico, di "estrazione", non realmente presente nella sua sensibilità, che sembra invece da quella avanguardia esser stata solamente istruita, e prevalentemente nelle intenzioni tecniche e non ancora artistiche. Sotto questa luce si può intendere il suo confrontarsi a quel ritorno al mestiere che fu bandiera di De Chirico prima e, subito dopo, di Valori plastici, entrando così nella confusione teorica dei due movimenti sfociata poi nella parallela propensione di altri che, come Carrà, De Pisis, Severini, ecc., seguirono il padre della Metafisica pur senza raggiungere, con il loro "fare", quella malizia intellettuale tesa all'enigma, ad una pittura sicuramente di forma, ma soprattutto di significati giocati abilmente spesso nel non-sense, oppure nella magica inquietudine. Metafisica e Valori plastici — movimenti ad un certo punto intersecantesi per analoghe attitudini — furono comunque un intendere come méta la sensibilità artistica rinascimentale — méta che successivamente si concretizzò nel Novecento —, un inseguire dunque e innalzare a modello la plasticità della figura intesa come forma pura, in antitesi allo sguardo apparentemente immediato e istintivo dell'impressionismo, ma più ancora alla disgregazione, scomposizione e ricomposizione strutturale di movimenti quali il Cubismo e il Futurismo. Da tutto ciò, comunque, la pittura di Amelio si distacca, ed è distacco dovuto a differente temperamento, a diverso modo di sentire la vita e, conseguentemente, di concepire l'orizzonte artistico. Innanzi tutto, nelle sue opere è pressoché assente il gioco ironico dell'enigma, anche quel suo inserire specchi nelle tele non è tanto presenza inquieta e contenutistica, è piuttosto inserto formale, struttura vagamente ambigua e quindi più concretamente segnica, presentandosi appunto come coloristica massa. Tuttavia, seppur di metafisica si vuol parlare almeno nell'atmosfera, di questa non conserva lo spiazzamento sarcastico e giocoso, in quanto l'immagine pare non voler simulare, ma farsi credere, traducendo lo sguardo incantato del pittore verso un qualcosa di realmente creduto, e raccontato attraverso un linguaggio quasi teatrale di forme illuse con scenografica precisione. Tale gestuale teatralità fa pensare più che al rinascimento quattrocentesco dell'ideale di Metafisica e di Valori plastici, ad un tardo rinascimento sicuramente già manierista e forse preludio al barocco. La stessa galleria di personaggi che sfilano in corazza, presentandosi con modi regali e altezzosi, oppure lottando con le loro statiche masse, tesi nello sforzo di armature e spazi costretti, gravitativamente sacrificati nel libero svolgersi dell'azione, s'assomiglia alle muscolose tortuosità dei corpi del Cinquecento, mentre il dramma, là espresso anche dal colore, qui è raccontato anche dalle scaglie coriacee monocrome. In aggiunta c'è un elemento più importante, presente nell'ultima e ultimissima produzione, a scostare Amelio ormai quasi definitivamente e inequivocabilmente da quelle poetiche novecentiste, ed è la componente futuristica che certo è passata dalla forma scultorea in maniera decisiva alla forma pittorica, creando meno statici movimenti nello spazio, meno nervosi divincolanienti. Ed è il movimento fluttuante incontrato nei Gabbiani ad averlo allontanato da quei corpi racchiusi e drammaticamente tesi, e ad avergli indicato la strada della scomposizione formale, che investiga di nuovi sguardi quella che resta comunque la componente dominante, ovvero la plastica scultorea di una materia certamente organica, divenuta infine ossea, forse cartilagine smembrata e sfogliata dal pennello che ora costruisce corpi fatiscenti, come svolazzanti marmoree danze nel bruno spazio del vuoto. Anche nei Gabbiani era avvenuto questo, ma lo spazio era diverso, la gravità obbligava gli origami a scendere rollando per accumularsi sul fondo del quadro, oppure accartocciandosi nella forza centripeta di floreali sfere, oppure ancora nel volo orizzontale e direzionato. Ora, invece, nessun centro gravitazionale, le masse paiono davvero smembrarsi caoticamente, come accadrebbe nel vuoto stellare, libere da costrizioni e semplicemente accarezzate dal debole vento di un fluido movimento, e comunque senza un verso preciso se non quello del caso. E bruno è lo spazio forse per meglio pervaderlo di un caldo avvolgente che però si sottrae non appena la forma lo riempie, alla quale non resiste trasparendo e stagliando chiaramente le immagini, uno spazio che permette l'azione libera componendo e scomponendo antropomorfismi, e in tal modo s'impone come oscuro mistero che svela, ma forse più probabilmente si mostra come vacuità dalla quale fare emergere sagome continuamente modificatesi in se stesse. Occorreva però alle masse quel qualcosa di vagamente spiazzante, come a voler vitalizzare quell'osseo colore. Ecco allora giustificati gli inserti rossi e blu, vissuti proprio come inserti, quasi un malizioso violare la monocromaticità, un voler incidere lo sguardo di un colore non reale, oppure non realmente metafisico, un render ancor più organiche e quasi cosmiche le cartillaginose impressioni di un silenzioso muoversi.
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